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La Vucciria di Palermo

La Vuccirìa è un mercato storico del capoluogo siciliano o almeno lo è stato per diversi secoli prima di cedere ad un lento abbandono, riflesso dell’inesorabile mercificazione del centro di città. Adesso vive e palpita nella mente di molti artisti come luogo della memoria e traccia di un tempo ormai smarrito.

Marco Favata, figlio di una Palermo ancora carnale e crocevia di commerci, presenta la propria Vuccirìa - con una formazione da architetto e una sensibilità da vedutista - confrontandosi con i grandi del moderno e del contemporaneo. Riferimento d’obbligo è la grande tela del maestro di Bagheria, Renato Guttuso, dipinta negli anni Settanta e conservata nel Palazzo Chiaramonte, sede del Rettorato universitario. Guttuso evoca il mercato come simbolo della sopraffazione fisica, del dionisiaco rigenerarsi della vita attraverso la sessualità intrinseca dei personaggi principali, magnetizzati da un gioco di sguardi. È la vittoria che dura un istante sulla morte sanguigna o estetica, quella dell’animale appena macellato o della verzura ben disposta in ricche geometrie.

La Vuccirìa di Marco Favata ne mantiene la proporzione quadrata ma, mezzo secolo dopo, esprime una geografia umana completamente mutata: non ci sono avventori, i commercianti espongono i prodotti della terra attendendo un turista che si lasci conquistare dai profumi e dalla freschezza. Renato Guttuso usava le diagonali come potenti direttrici d’ingresso della realtà nell’opera: uova e pescato, formaggi e frutti saporosi affluiscono in ritmi ordinati, vibranti, con un gioco d’infinite luci e geometrici ritagli d’ombra. Così come in un frullatore appena azionato tutto ruota verso il centro, sublimato nell’ostentazione di una fisicità assoluta, straniante e salvifica: quella esaltata negli stessi anni dall’ormai anziano Alberto Moravia.

Marco Favata dà, invece, alle diagonali una forza centrifuga, malinconica e quasi struggente. La tenda parasole, arancione brillante, è la grande nota di colore ma non proietta ombra alcuna. Accompagna solo lo sguardo in un volo di fantasia, leggero e sognante. La bottega di macelleria ha la saracinesca abbassata, i tubi rossi di un ponteggio edile cadenzano tutta la geometria dell’opera. Sulla diagonale corrono la via di fuga, lo scorcio di un palazzo; sulla contrapposta biancheggiano alcuni cavoli e finocchi: è tempo d’inverno, sono pochi i passanti, regna il silenzio. Basta esporre la merce, non serve più una cantilena declamata a piena voce per attirare la folla scomposta dei compratori.

L’opera riflette una limpida sovrapposizione di sentimenti provati dall’Artista: vi è la presa di coscienza oggettiva, l’immagine della Vuccirìa d’oggi tratteggiata con pennellate sicure e fluide, con toni luminosi per mantenere l’immediatezza della visione. Vi è invece il ricordo, personale e non ostentato, che diviene l’elemento scatenante della creazione. L’immagine non presenta una centralità definita, non si catalizza attorno a centri d’interesse: è la necessità di guardare al presente per rivedere il passato, scavando nei meandri della memoria. 

Marco Favata, che usa abitualmente le colature per creare momenti di riflessione, di distacco temporale tra la percezione e il riconoscimento del luogo, carica adesso gli interventi cromatici con un significato diverso: sono la traccia di chi è passato per questi luoghi, le voci dei venditori, il loro gridare o abbanìare - detto in siciliano - per promuovere, magnificare e vendere le proprie mercanzie. Macchie vivide che sono state madri di famiglia in cerca di un piccolo affare, pensionati intenti a pregustare il pescato del mattino.

L’Artista passa al gesto simbolico, rappresentandosi sulla tela con i colori quasi dicesse “io ricordo”. Ecco allora che il dipinto si carica di un significato emotivo: dalla rassicurante somiglianza della visione con l’esperienza si passa alla riappropriazione di un passato che è ricordo del singolo e consapevolezza collettiva. La Vuccirìa per un attimo torna a cantare la propria vita esuberante, la presenza di un ritmo quotidiano, dalla frenesia dell’alba al torpore del meriggio. È un risultato commovente: l’oggi veduto attraverso gli occhi del tempo, innescando in chi osserva una prospettiva inversa, fatta di rammarico e di memoria.

Differente, ma allo stesso modo affascinante, è lo sguardo di Croce Taravella: un’altra Vuccirìa, una percezione che mantiene - per contrasto - il ricordo di una Sicilia aspra e sconfinata. Taravella, infatti, è madonita: nasce a Polizzi Generosa, un borgo arroccato fin dalla notte dei tempi quando segnava l’estremo confine della Magna Grecia. È un Artista che ha molto viaggiato, un ritrattista di metropoli che guarda con occhi acuti ma distaccati. In lui vi è l’animo nomade dell’esploratore, assetato d’orizzonti sempre più distanti. La Vuccirìa è un luogo del percorso, una tappa della vita: l’adolescenza, l’Accademia frequentata a Palermo. Eppure, nonostante il suo dipingere sia al medesimo tempo un continuo scavare nel flusso del ricordo, lo sguardo vola alto e va oltre il brulicare della gente, oltre i profumi, le voci, la vita di quartiere.

Croce Taravella presenta una Vuccirìa per bande orizzontali: non è il quadrato, cioè la circolarità e quindi il centro, la sua scelta di composizione bensì un sereno e più largo campo visivo. I tendoni del mercato chiudono e avvolgono il mondo delle contrattazioni, degli incontri e delle attese. Un universo di piccole compere, di gastronomie attraenti ma pur sempre transitorie, quasi dimenticate. Il guscio di tessuti chiude il corpo d’ombra del mercato, l’Artista guarda al sole che bacia il sommo delle case. Guarda al cielo che s’insinua, azzurro e trasparente, dentro il corpo scuro della città come se i vicoli fossero ferite bisognose di luce.

La superficie ruvida, tattile, granulosa - quasi un cocciopesto - di Taravella è il luogo fisico della memoria. La si può toccare, è graffiante come ogni ricordo per chi continua a sentirsi dentro le radici nonostante i chilometri, le miglia volate, i continenti attraversati e percorsi. La trama gentile ed evocativa di Favata è invece un nido malinconico che l’Artista continua a portarsi dentro, come fonte di energia sorgiva, rassicurante e pura. Due caratteri, un solo mercato e le mille emozioni dell’animo umano.

 

written by Massimiliano Reggiani

con la collaborazione di Monica Cerrito 

Massimiliano Reggiani, critico d’arte, promuove una lettura delle arti visive come linguaggio strettamente legato al contesto culturale dell’autore, alla consapevolezza del gesto e alla volontarietà della comunicazione. Oltre a questi caratteri specifici ritiene che, nelle arti visive, la fisiologia della percezione prevalga sui confini strettamente culturali. Diplomato Maestro d’arte in Decorazione pittorica e in Scenotecnica, poi all’Accademia di Belle Arti di Bologna in Scenografia, laureato in Giurisprudenza e in Filosofia all’Università degli studi di Parma.

 

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