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Di Genio in Genio

Di Genio in Genio.

I maestri del Novecento

"I Maestri del Novecento” apre la stagione mostre 2025 del Centro d’Arte Raffaello di Palermo e lo fa con una retrospettiva, uno sguardo globale che mette in dialogo i grandi creativi sulle due sponde dell’Atlantico. La “Marilyn Monroe fucsia” di Andy Warhol rappresenta il momento di confronto con cui guardare l’intera mostra. L’Artista statunitense, noto per le sue Factories - spazi creativi di confronto aperti ai giovani talenti della metropoli sull’Hudson - applica al mondo manifatturiero la propria riflessione. Warhol, persona dalla sensibilità profondamente religiosa, dà all’Arte un valore di prodotto legandola al proprio tempo, ai personaggi in vista, all’ambiente urbano e industriale del grande boom postbellico. È attività dell’uomo, frutto della società, elemento di contestazione ma non porta verso l’assoluto, non sarà mai un mezzo per raggiungere la trascendenza. Marilyn Monroe fucsia” fissa il paradigma contemporaneo per un’arte rivolta al presente. Al di qua dell’Atlantico, invece, l’Europa funestata dai due conflitti globali si interroga sulla propria identità. In Catalogna i surrealisti Salvador Dalì e Joan Mirò scavano nella tradizione artistica per liberarla da ogni velleità di conformismo, per non renderla strumento di potere. Dalì scollega volutamente la forma dagli abituali significati, scardinando le coordinate della possibile comprensione, Mirò aggredisce la forma rappresentativa per sguinzagliare colori e linee in una dionisiaca danza senza freni. L’Italia di quegli anni, invece, risponde al proprio passato più recente - fatto di cultura ministeriale e censura - con una rigogliosa pluralità di voci. Ogni Artista - e qui troviamo la parte più significativa della mostra - elabora una propria risposta personale a due grandi sfide: il senso dell’arte in continuità o in contrapposizione con il passato e il proprio ruolo nella società del tempo. Ogni Artista si pone innanzitutto come intellettuale facendo i conti con la propria vita e creando la propria estetica in relazione ad un possibile modello sociale. È un crogiuolo di menti raffinate, in bilico fra spaesamento, entusiasmo e disincanto: sono il frutto di una società spaccata, che ha vissuto la contrapposizione fra regime e dissidenza, tra patriottismo e lealtà militare, tra i due lati della cortina di ferro, tra nostalgici e fieri sostenitori delle libertà costituzionali.

Gli artisti in mostra

Ecco allora che in “Ulisse” del bergamasco Giacomo Manzù possiamo ammirare il fascino per la maniera antica, dalla statuaria allo stiacciato; oppure soffermarci sull’intimismo scultoreo - dai piani levigati e dall’impostazione solenne - de La coreana” del catanese Emilio GrecoTroviamo l’orgogliosa appartenenza alle proprie radici che affondano nel Rinascimento e nel Manierismo con l’opera del milanese Pietro Annigoni il “Volto”; in Bruno Caruso, sentiamo il palpito accorato della critica sociale dove gli elementi del passato classico affiorano come echi lontani, assorbiti e rielaborati dalla frenesia luccicante della nascente borghesia industriale. C’è il rifugio che l’Artista cerca nel soggetto, in cui perdersi nella speranza di sfiorare una bellezza universale: che siano le sottilissime variazioni di luce colte dal siciliano Piero Guccione o i rassicuranti paesaggi dell’abruzzese Michele Cascella. In entrambi vi è la sete evidente di una serenità che la pittura riesce ad isolare e trattenere, diventando un momento di quiete preservato dai turbamenti repentini della cronaca e della storia. Il linguaggio dell’arte può creare universi paralleli dove la risposta ai drammi e ai problemi della società si risolvono nell’elevazione dello spirito individuale che accede ad un luogo al contempo reale e immaginario. È il caso dei romani Piero Dorazio e Gianni Dova, astrattista il primo spazialista il secondo. La “Composizione” di Dorazio e “Uccello di Bretagna” di Dova schiudono scenari puramente percettivi in cui possono librarsi, quasi senza peso, suggestioni colte o evocazioni naturali. Renato Guttuso e Salvatore Fiume, entrambi siciliani, e Domenico Cantatore, pugliese, mantengono invece saldo il legame con l’esperienza vissuta, con il ricordo e la sua traccia, il segno ruvido e la ferita ancora aperta: cercano di riscattare attraverso l’arte una società antica ma fragile davanti all’esuberante modernizzazione. Guttuso con un’indiscussa maestria tecnica e raffinatezza compositiva; Fiume portando alla ribalta l’arte e laraffigurazione italiana in un mondo globale; Cantatore fissando nella luce bianca del meridione il disagio del divario crescente con un settentrione ormai distaccato. Altri sono legati all’Italia per le origini come Fernando Botero o per scelta come Antonio Bueno: Artisti che hanno fatto propria la tradizione del ritratto, la solida impostazione volumetrica, l’equilibrio della composizione, la delicatezza quattrocentesca della tavolozza per raccontare il proprio quotidiano - talvolta con sarcasmo - nobilitandolo attraverso un maturo linguaggio delle forme. Restano, infine due testimoni del secolo breve: Renzo Vespignani, romano dal tratto eccelso, sicuro, calligrafico e quasi tormentato: osservatore acuto delle periferie, si è molto dedicato all’incisione come strumento per narrare, per salvare dall’indifferenza e dalla dimenticanza i punti critici del nuovo dramma sociale. Apprezziamo nella sua “Susanna” un’arte introversa e splendida come quella di Mario Schifanol’Artista pop che chiude il cerchio perché è il più affine a Warhol. Una vicinanza legata alle tecnologie, al rapporto con l’industria e la riproducibilità ma dallo spirito profondamente diverso. Nella “Casa di guardia” pur nell’immediatezza della pennellata e nella forte semplificazione del segno Schifano mantiene una poetica continuità compositiva con i cicli di affreschi delle grandi architetture sacre. È una delle risposte più fresche alla sfida che ogni Artista si pone: restare coerente fra tradizione e modernità.

                                                                                                                                                                                                 Written by Massimiliano Reggiani

Massimiliano Reggiani, critico d’arte, promuove una lettura delle arti visive come linguaggio strettamente legato al contesto culturale dell’autore, alla consapevolezza del gesto e alla volontarietà della comunicazione. Oltre a questi caratteri specifici ritiene che, nelle arti visive, la fisiologia della percezione prevalga sui confini strettamente culturali. Diplomato Maestro d’arte in Decorazione pittorica e in Scenotecnica, poi all’Accademia di Belle Arti di Bologna in Scenografia, laureato in Giurisprudenza e in Filosofia all’Università degli studi di Parma



 

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